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Un trionfo visivo, ma Lucas e Ford restano lontani

di Roberto Escobar

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14 gennaio 2010

È una storia antica, quella di Avatar (Usa, 2009, 162'). La si può raccontare in breve con le parole di Jake Sully (Sam Worthington), l'ex marine paraplegico protagonista del film ideato, scritto e diretto da James Cameron. Se qualcuno sta seduto su una cosa che tu vuoi, dice Jake, prima lo fai diventare tuo nemico, poi sei autorizzato a muovergli guerra. Proprio questo fanno, in un ipotetico anno 2154, i mercenari americani spediti da un consorzio di aziende private su Pandora.

Guidati dal perfido e palestrato colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang), devono proteggere le macchine scavatrici del consorzio, intente a violentare le viscere del lontanissimo pianeta. Ormai spoglia d'ogni sua ricchezza, d'ogni suo dono, la Terra può trarre ancora vita solo da un certo minerale che si trova su Pandora (che in greco significa appunto tutti-i-doni). A ostacolare questo disegno imperialistico ci sono però degli strani ominidi autoctoni, i Na'vi. Alti su per giù 4 metri, hanno uno scheletro che la natura – o comunque essi la chiamino – ha rinforzato al titanio. I loro costumi contrastano con quelli degli invasori. Vivono nella foresta, cavalcano draghi volanti, adorano un enorme albero sacro colmo d'una energia vitale che tutto in sé racchiude, comprese le voci degli antenati. Per loro sfortuna, nel sottosuolo del villaggio c'è un ricco giacimento di quel tal minerale. Non hanno scampo. Per sentirsi in diritto di bombardarli, prima o poi il colonnello Quaritch troverà il modo di farne dei mostri selvaggi, e dei nemici.

La storia è antica, appunto. Nella sceneggiatura ci sono riferimenti impliciti a fatti recenti degli "umani". Ma in platea non si fatica a risalire almeno fino a Polifemo. Visto con il senno di poi, da quel lontano fattaccio è comunque nato un mito, uno splendido racconto epico. Lo stesso vale per un altro fattaccio a noi più vicino, anch'esso diventato un racconto epico: quello (prima letterario e poi cinematografico) della conquista del west a scapito degli uomini rossi. E certo a loro, a quei selvaggi derubati, si ispira Cameron quando descrive i Na'vi: cavalieri abilissimi, uomini e donne intrepidi, esseri legati alla divinità che abita ovunque, e insieme sfortunati nemici degli uomini bianchi. Insomma, gli Omeri cui Avatar si rifà si chiamano John Ford e Howard Hawks. Non è questo un difetto, o meglio non lo sarebbe, se il racconto che ne viene reggesse il confronto con il livello appunto epico di film come Il grande cielo (The Big Sky, Hawks, 1952), o magari come Il grande sentiero (Cheyenne Autumn, Ford, 1964).

Ma così non accade. Non ha potenza narrativa, la vecchia storia raccontata da Cameron. Non ha l'epica tradizionale del western, non ha quella reinventata a metà degli anni 70 da George Lucas con la saga di Star Wars, e non ne ha una qualsiasi altra. In essa c'è invece una grande inventiva grafica. Con un uso intelligente e creativo delle riprese dette di motion capture e della tecnica tridimensionale, Avatar dà vita a un pianeta e a un mondo altri, e tuttavia credibili. Questo è lo snodo narrativo del film: questo tradimento alla fine mancato. Dentro il gran corpo del suo avatar, Jake impara a sentire le emozioni dei Na'vi, e a volare sul dorso di un drago, passando da una montagna fluttuante all'altra. Già che c'è, impara anche a innamorarsi della bella Neytiri (Zoe Saldana, o quel che di lei resta dopo la manipolazione digitale). Potrà mai accettare che Quaritch getti su di loro, e sull'armonia del loro mondo incantato, il ferro e il fuoco dei suoi aerei ed elicotteri da guerra? Infatti, le conseguenze della sua ribellione – del "tradimento della sua razza", come lo chiama Quaritch – occupano l'ultima, interminabile sequenza di Avatar. Ma a questo punto ben poco resta della storia antica che pure Cameron avrebbe voluto raccontare, a parte la meraviglia baracconesca d'una scazzottata in 3d.

14 gennaio 2010
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